Alfonso Piccolomini (1558-1591)

Alfonso Piccolomini di Aragona e Castiglia, patrizio senese e conte palatino, imparentato con gli Orsini di Pitigliano, divenne signore di Montemarciano («vicario in temporalibus» per la Chiesa) a soli sedici anni, succedendo al defunto padre Giacomo. Si fece subito notare per il suo carattere bizzarro e sconsiderato e per i suoi modi violenti, trasformando la rocca di Montemarciano in un ricettacolo di banditi e le campagne intorno, specialmente nelle aree attraversata dal torrente Triponzio, in luoghi pericolosi e invivibili.

I suoi tutori e parenti, per mitigare gli eccessi del giovanissimo reggente, pensarono bene di farlo sposare ma in realtà neanche il matrimonio con la prescelta Ippolita Pico della Mirandola, celebrato a Pesaro nel 1578, riuscì a distogliere il Piccolomini dalle malefatte e dai soprusi che andava continuamente commettendo in vari territori d’Italia – dalle Marche all’Umbria alla Toscana ed in seguito anche a Venezia -, rendendosi sempre più inviso a papa Gregorio XIII.

Si racconta che Alfonso, per sfuggire alle milizie pontificie e ai suoi nemici, mettesse a punto una serie di stratagemmi atti a renderlo irriconoscibile, attraverso i quali riusciva ogni volta a salvarsi dalla cattura: tra questi, va sicuramente ricordato quella sorta di travestimento che lo vedeva portare una barba posticcia, di colore e lunghezza sempre variabili, oltre al cerone con cui soleva ricoprire il proprio volto, che gli conferiva un pallore a dir poco inquietante. È noto che in alcuni casi si serviva addirittura di un sosia, tale Giovanni Paolo di Brescia, per depistare qualsiasi nemico che fosse sulle sue tracce.

Ma la stagione di violenza e di feroce banditismo inaugurata a Montemarciano da Alfonso ben presto terminò: il 27 novembre del 1578 infatti il papa ordinò la distruzione di quel «castello bello, forte e molto ben ornato» – dotato di due «fortissimi torrioni», uno verso mare e l’altro, di epoca posteriore, verso la montagna – e il disboscamento delle selve di Montemarciano e Monte S. Vito, per neutralizzare una volta per tutte il Piccolomini e la banda di briganti al suo seguito (vennero catturati in totale ben 140 banditi). In quell’occasione, Montemarciano perse non solo uno dei suoi edifici simbolo, anzi, forse il principale monumento storico che aveva, ma anche l’antico archivio conservato dentro la fortezza, che fu dato alle fiamme e di cui non resta praticamente nessuna traccia.

Dopo tale atto di distruzione – la rocca venne demolita da duemila muratori e con l’ausilio di cariche esplosive – lo Stato ecclesiastico concedeva comunque ad Alfonso di rimanere, almeno formalmente, vicario di Montemarciano, come si legge in un documento del 1579, mentre lui ripiegò per qualche tempo a Mirandola, dove si sentiva più al sicuro. È significativo il fatto che, anche dopo la severa punizione e la sconfitta inflittagli dal pontefice, Alfonso non avesse la minima intenzione di redimersi e di migliorare la propria condotta: nel maggio del 1581 si consumò l’eccidio di Montalboddo (l’odierna Ostra) contro le truppe del colonnello Pierconte Gabuzi, suo nemico storico, e a danno di alcuni abitanti, che vennero barbaramente trucidati dalla banda guidata dal sanguinario Alfonso.

Seguirono anni di continue razzie e attacchi in vari territori d’Italia, sempre coadiuvato dal suo esercito di 150-200 uomini, in costante movimento per non farsi catturare. Le violenze perpetrate da Alfonso, il cui nemico principale rimaneva il papa, specie dopo la distruzione della rocca di Montemarciano, avvenivano peraltro con la complicità e spesso con l’appoggio delle popolazioni locali, che giustificavano le azioni del Piccolomini, ritenendole una legittima vendetta contro un ingiusto pontefice.

Dopo anni di turbolenti scorribande e spostamenti, anche fuori dall’Italia, Alfonso venne alfine catturato a Bracciano nel 1591 e impiccato poco dopo alla torre del Bargello, a Firenze. Fu sepolto nella chiesa fiorentina della Confraternita dei Neri a Borgo la Croce (fuori porta S. Francesco)  ma la sua tomba andò perduta nel XVIII secolo, quando l’edificio sacro venne distrutto.